Alla fine di Ottobre ci ha lasciato il Dottor Cesare Bartoli, un grande medico, un caro amico.
Da oltre cinquant’anni tutti i giorni sfrecciava lungo le strade di porta Venezia e città Studi a cavallo della sua bicicletta, sul cui portapacchi posteriore era ancorato un cestello con 6 bottiglie di acqua. Pedalava intrepido, con qualunque tempo, indossando un caratteristico giubbotto azzurro dell’aereonautica. Sotto questo aspetto apparentemente dimesso si celavano la mente ed il cuore di un medico competente e sensibile.
Ci siamo conosciuti all’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori, in via Venezian: io avevo vinto una borsa di studio e Cesare, allora giovane assistente, mi ha preso sotto la sua ala insegnandomi in particolare la diagnostica, in cui era inarrivabile maestro.
Un’attività intensa, impegnativa, entusiasmante, ma non esclusiva. Spesso, al termine di una faticosa giornata lavorativa andavamo all’abbazia di Viboldone; ascoltavamo il canto dei Vespri e poi, seduti sul muretto dell’Abbazia, chiacchieravamo sotto il cielo stellato. Un’atmosfera oltre il tempo, rasserenante, dove all’esile canto della suora che intonava i vespri seguita dal coro delle consorelle si sovrapponeva il rumore degli aerei in discesa verso il vicino aeroporto di Linate. Ci aiutava a capire il senso di quello che facevamo, l’approfondimento dell’arte medica, il rapporto con i pazienti, cercando di dare risposta alle domande che inevitabilmente sorgevano dal confronto quotidiano con le malattie, le sofferenze dei pazienti; gioire per le guarigioni ottenute grazie anche alle nostre cure, lenire la delusione quando l’esito era negativo.
Le nostre strade si sono poi separate. Io mi sono trasferito nel nuovo Istituto Europeo di Oncologia e lui ha continuato a lavorare all’Istituto dei Tumori, riferimento prezioso per i colleghi, il personale sanitario ed i pazienti.
Ma l’amicizia è rimasta inalterata: abitavamo nello stesso caseggiato e abbiamo condiviso non solo l’esperienza lavorativa, ma anche quella familiare.
Era nato in Emilia ed ha sempre conservato l’amore per la sua terra anche dopo che, adolescente, si è trasferito a Milano con la famiglia frequentando il liceo classico Parini, ove ha conosciuto Gabriella, la sua futura moglie. Aveva una capacità di aggregazione talora gioiosamente goliardica: memorabili i raduni tra Febbraio e Marzo quando faceva venire dalla sua Carpi un’autobotte carica di Lambrusco novello e la nostra via si animava di tanti amici e colleghi che travasavano il vino nelle loro damigiane schierate sul marciapiede.
Dietro l’aspetto talora burbero, talora scanzonato si celava una persona sempre disponibile ad ascoltare ed aiutare i pazienti che si rivolgevano a lui. Anche in Calabria, dove trascorreva le vacanze estive, la sua casa in riva al mare era meta di pazienti che si rivolgevano a lui per un problema medico ed oncologico, sicuri di trovare attenzione e risposte.
Era credente convinto; mitico un suo pellegrinaggio in motocicletta sul cammino di Santiago. Aveva uno stile di vita schivo, per certi versi spartano, ma era generoso, attento ai deboli ed agli emarginati; per molti anni ha visitato gratuitamente i pazienti oncologici nell’ambulatorio dell’Opera San Francesco.
Amava i viaggi alla scoperta di nuovi posti e antiche tradizioni; si è spesso recato in Africa con diversi amici, tra cui il fido ex maresciallo dell’aeronautica che custodiva e “curava” la jeep con cui si addentravano nel deserto.
Era legatissimo al fratello ed alla sua famiglia ed orgoglioso dei suoi figli, ai quali ha saputo trasferire i suoi interessi ed i suoi principi: la profonda fede quotidianamente vissuta, l’esercizio dell’arte medica, la passione per i viaggi e l’archeologia, l’attaccamento alla terra ed ai suoi frutti.
Ha affrontato con grande dignità, umiltà e sopportazione le limitazioni di movimento conseguenti agli interventi alle ginocchia ed i disturbi causati dalla malattia oncologica, senza trascurare la sua vocazione di medico. Il giorno prima della sua morte sono stato a trovarlo all’Istituto dei Tumori – la sua seconda casa – dove era ricoverato; pur sotto l’effetto degli antidolorifici chiedeva notizie della mia famiglia e dei miei nipoti rimasti orfani da poco tempo.
Quando ero giovane borsista all’Istituto mi hanno molto colpito le parole di un anziano medico prossimo alla pensione: “Prego che il Signore mi faccia incontrare un medico amico quando mi ammalerò”.
Ecco, Cesare Bartoli era il medico amico che tutti vorremmo avere vicino nel momento della malattia.
Fausto Chiesa