Già nel II secolo d.C. Galeno, uno dei più famosi medici dell’antichità, consigliava alle donne del suo tempo che volevano abortire una speciale polentina di fave da spalmare sul ventre. L’affermato ginecologo Sorano, che svolgeva la sua attività nella Roma dell’imperatore Traiano, suggeriva una serie numerosa di ricette abortive basate su vegetali vari, quali il prezzemolo, fino al vino ambrato di Chio.
Quindi pappette, pozioni, impiastri, tisane e decotti la facevano da padroni in quei tempi. D’altra parte non poteva che essere così, la medicina antica viaggiava nell’empirismo più diffuso (rispetto a quella moderna) sia dal punto di vista diagnostico che curativo; si reggeva soprattutto sull’elementare esperienza terapeutica dei secoli addietro e sulla geniale intuizione diagnostica di pochi singoli medici, quali appunto Galeno e Ippocrate.
Anche nel mondo antico, l’aborto era pratica diffusa nonostante la formale opposizione del corpo medico guidato da Ippocrate nel V-IV secolo a.C. Qualche legislazione dell’epoca considerava però il fenomeno in modo negativo, tanto da ritenerlo un omicidio; ma della donna, protagonista insostituibile e al centro della maternità, si parlava con noncuranza come di una “cosa” del tutto secondaria.
Ai tempi della civiltà sumerica e mesopotamica (3000-2500 a.C.) l’aborto veniva anche artatamente provocato con urti e colpi ben inferti. Abbiamo notizie che i legislatori sumerici comminarono pene pecuniarie per chi provocava l’aborto; quegli illuminati diedero così inizio al principio giuridico del reato per interruzione di gravidanza, principio che fu poi, nei secoli seguenti, accolto in misura più o meno significativa dalle legislazioni delle civiltà successive.
Della donna che abortiva, tuttavia, si continuava a non preoccuparsi se non come uno strumento reso temporaneamente inutilizzabile. Persino l’illuminato Codice di Hammurabi (1900-1800 a.C.) non considerava più di tanto la condizione umana della donna ed era addirittura prevista una diversa penalità se si faceva abortire una schiava o una donna libera, per le quali la legge prevedeva cinquanta o più bastonate nel ventre.
Insomma, se da una parte i governi dei popoli antichi erano impegnati a reprimere l’aborto per evitare che lo Stato si privasse di futuri contadini e soldati, dall’altra l’aborto spontaneo veniva praticamente ignorato, sul piano umano e personale, e quindi la posizione della donna veniva continuamente trascurata. In definitiva le donne, specie le più povere e socialmente insignificanti, avevano una sorte non molto diversa da quella delle donne di alcuni paesi del Duemila, costrette a situazioni avvilenti, degradanti e la cui considerazione pubblica, sotto l’aspetto sia umano sia civile, è del tutto un’eccezione.
Valevano bene le nobili parole del letterato Giovenale sulle donne in genere e su quelle d’infimo ceto in particolare, che “a collo nudo mostravano le spalle sopportando il peso del destino, sia dovendo crescere a forza il figlio casuale o non voluto, sia spesso dovendo abortire in modo crudele e nascosto…”.
Anche nel mondo antico le tecniche abortive si ausiliavano di grossolani mezzi meccanici quali ferri, sonde, specie di forpici che venivano manovrati da praticone e fattucchiere, insomma dalle “mammane” dell’epoca. Fra i più noti mezzi adoperati si distingueva l’embriosfacte: uno spillone di bronzo, il disagio della cui penetrazione doveva essere totalmente sopportato nel modo più anonimo e silenzioso possibile, sempre dalla donna.
Rimaneva comunque in vigore la secolare tradizione dei metodi naturali per abortire, non sempre efficaci. Alcuni veramente singolari e testimoniati, come del resto per i mezzi meccanici, da numerosi disegni su vasi da profumo o da tavolo o da superstiti pitture murarie. Questi interventi prevedevano: percorsi più o meno brevi da fare a bordo di carri su strade sconnesse, effettuare speciali e violenti salti, spostare all’improvviso grandi pesi, effettuare bagni caldi-freddi ripetuti e prolungati.
Tali pratiche però esponevano le donne incinte agli occhi di tutti, per cui spesso si ricorreva alle pozioni medicinali a base di vini speciali e a intrugli di felce femminea che potevano vantare un uso millenario, i cui ricettari erano stati tramandati da fattucchiere specialiste in “cosmesi”, queste ultime autentiche “factotum”.
All’epoca dell’imperatore Tiberio, era nota la greca Elefantide che usava le intuizioni del grande Ippocrate, di quattro secoli prima – il quale aveva peraltro condannato nel suo celebre “Giuramento” le pratiche abortive -, creando decotti diuretici, bevande espulsive e praticando cataplasmi e semicupi. Le erbe prevalentemente adoperate erano semi di lino, fieno ellenico, malva, ciclamino, ruta, mirto, lauro, crescione.
L’impiego di tali ricette dava lavoro ai “farmacisti” dell’epoca che misturavano fino a venti-trenta sostanze vegetali diverse ed erano addirittura capaci di preparare misture già pronte e graduate per ogni tipo di intervento.
Se i rudimentali mezzi meccanici e le diverse pozioni non avevano effetto, non di rado si sottoponeva la puerpera a interventi parapsicologici, proibiti però dalla legge, facendo traumatizzare la povera donna da cani feroci e ringhiosi, sottoponendola a fumigamenti di zoccolo d’asino bruciato lentamente, costringendola a indossare sacchetti di pelle di cervo contenenti le teste di grossi ragni seccati.
Ma chi erano le donne che abortivano? Un po’ tutte, ma in particolare quelle appartenenti alle categorie sociali inferiori sulle quali si perpetrarono con facilità gli abusi più vergognosi.
Giovenale ebbe il coraggio di sottolineare nei suoi scritti, in un periodo di evidente antifemminismo, lo sfruttamento e il degrado della donna socialmente inferiore, che doveva per di più sopportare l’incombente condanna della società e della legge, al contrario di quelle poche dei ceti più abbienti che potevano sottoporsi a trattamenti efficaci e discreti al riparo dell’omertà di censo.
Significativi erano anche gli aborti voluti dalle donne privilegiate per salvaguardare la propria bellezza senza correre il rischio di rughe o smagliature. Così era per la ballerina, la suonatrice, l’etéra che dovevano essere sempre attraenti e di piacevole aspetto.
Ricordiamo che la posizione degli antichi reggitori (Aicurleo, IX sec.; Romolo e Numa Pompilio, VIII sec.; Solone, VII-VI sec. a.C.) è sempre stata genericamente orientata verso la condanna dell’aborto, non come esigenza morale ma per la sottrazione allo Stato di braccia utili al lavoro. Solo nel 600 a. C., la religione di Zarathustra incominciò ad associare l’aborto al reato di omicidio. Ma del problema umano e sociale della donna nessun cenno e una minima salvaguardia.
Neppure l’imperatore romano Augusto, mostrandosi convinto che l’aborto non fosse molto distante da un atto di morte, intervenne per garantire in qualche misura la condizione della donna.
Con Giustiniano, sul finire dell’Impero romano, addirittura si penalizzò la donna che interrompeva la gravidanza, come sempre l’unica responsabile secondo l’ottica maschile. Questo nonostante la codifica di una specie di diritto di famiglia che prevedeva leggi demografiche avanzate. Ma si era già in piena epoca cristiana, quando finalmente si faceva un po’ di nuova luce sulla condizione femminile e il ruolo della donna, con la necessità di garantirle sotto il profilo umano una certa dignità e rispetto.
Certo la posizione cristiana fu sempre, fin dall’inizio, contro la pratica dell’aborto e per la sua condanna: questo era il frutto di approfondite discussioni teologico-morali, innestate anche su una tradizione giudaico-ellenistica. Ma le donne, eterne subalterne della storia, avevano finalmente un poco di spazio in più per liberarsi dall’ipocrita e dominante società maschile che le avevano rese colpevoli ed emarginate. La donna dovette ancora vivere sottomessa nel clima delle allucinanti condizioni medioevali e così su su fino ai tempi nostri, ove il riscatto femminile è stato così veloce e sconvolgente da rendere quasi impossibile credere che esse siano state sottoposte per millenni a vergognose e insopportabili ingiustizie.
Articolo pubblicato sul tabloid L’Eco di Milano e Provincia • Consulta il nostro archivio