Non è un mistero che l’Unione Europea stia attraversando, almeno fin dalla crisi dell’euro nel 2011, una serie di sfide e problemi che stanno mettendo in discussione il suo assetto. La risposta della politica nei vari Stati membri sembra essersi disposta su un asse ben preciso. Da una parte assistiamo alla nascita dei movimenti populisti che cercano di ottenere consensi rispondendo alle debolezze del progetto comunitario affermando semplicemente la sovranità dei singoli Paesi. Dall’altra, invece, osserviamo i partiti più europeisti che vogliono spingere sempre più sull’unificazione politica dell’Europa, puntando a portare l’integrazione dei vari Stati al livello successivo. Questa opposizione non ha fatto che fomentare la polarizzazione delle popolazioni europee a scapito della democrazia occidentale, di crisi in crisi: dalla crisi migratoria del 2015, alla Brexit, alle divisioni sulle sanzioni contro la Russia.
L’Europa unita dalle differenze
Forse, la soluzione ai problemi dell’Unione Europea sta nell’interrogarsi su cosa deve diventare questo progetto e sulla sua struttura – anziché chiedersi se ciò che ci serve è più Europa o meno Europa. E ci si potrebbe persino rendere conto che un modello adatto per aggiornare i principi fondanti dell’Unione si trova molto più vicino di quanto sembri.
Il modello di Unione Europa perpetrato dai partiti europeisti al potere nei vari Stati membri è uno: cercare l’armonizzazione delle società europee cercando di livellarne le differenze. Bisogna centralizzare il potere e i processi decisionali fino a puntare alla creazione di un superstato europeo che possa competere geopoliticamente con giganti come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
Questa tendenza uniformante si coglie nelle ultime fasi dell’integrazione europea: l’unione monetaria, le pressioni da parte della Corte Europea e della Commissione Europea per affermare la superiorità del diritto europeo rispetto alle leggi nazionali, e i progetti futuri per creare un unico esercito europeo o un unico framework fiscale (vedasi per esempio l’approvazione repentina da parte della Commissione Europea della proposta dell’OECD sulla tassazione minima globale).
Eppure, la storia dell’Europa non ci insegna che il nostro continente è prosperato attraverso l’omologazione, la centralizzazione e l’affermazione di un’unica autorità sovranazionale – come invece, per esempio, si può dire proprio della Russia, della Cina, e, in modo un po’ diverso, forse anche degli Stati Uniti.
L’Europa s’è nutrita per secoli, dalla caduta dell’Impero Romano, di una miriade di realtà politiche e sperimentazioni istituzionali tra le più disparate: dalle monarchie assolute in Francia e in Spagna, alle leghe mercantili come la Lega Anseatica, alle Province Unite, alle città-stato e alle unioni di corone come nel Regno Unito, ai principati in competizione tra di loro ma uniti sotto l’egida dell’impero o della Chiesa.
Il Leitmotiv europeo è stato sempre uno: integrare le differenze culturali, storiche, sociali delle migliaia di identità che popolano il continente attraverso il confronto e lo scambio tra le istituzioni più disparate. Ogni comunità emerge con un proprio ordine spontaneo che risponde alle proprie esigenze particolari, e le unioni in entità più grandi e potenti sono sempre avvenute per rispondere a minacce esterne laddove le risorse locali non bastassero.
Cosa ci insegna, o può insegnare, la Svizzera
Oggi conserviamo un unico fossile della storia politica dell’Europa: la Confederazione Svizzera. Per quanto la Svizzera abbia, nella sua storia, ammodernato le proprie istituzioni per rendersi compatibile col modello dello Stato moderno e democratico, troviamo nella sua organizzazione interna delle importanti lezioni che potrebbero farci capire come far tornare l’Unione Europea sui binari della sua stessa storia. E il principio fondamentale che anima oggi la Svizzera e ha animato l’Europa nei secoli è uno: il principio di sussidiarietà. Ovvero, problemi locali e concreti dovrebbero essere risolti da comunità piccole e legate al territorio, e la coordinazione centrale di un organo superiore dovrebbe subentrare solamente laddove le risorse locali non possono arrivare.
Nello stesso modo, la Svizzera, che conta quest’anno poco meno di 9 milioni di abitanti (un milione in meno della Lombardia), è divisa in 26 cantoni: di fatto Stati autonomi ciascuno col proprio parlamento, la propria Costituzione, i propri organi fiscali, le proprie leggi. La Confederazione, cioè il governo nazionale centrale, per Costituzione elvetica è autorizzato a intervenire e legiferare strettamente su quelle questioni che riguardano due o più cantoni allo stesso tempo: per esempio, la difesa militare, leggi di interesse nazionale, la politica estera, o la costruzione di infrastrutture che collegano varie parti del Paese.
Questa struttura decentralizzata, fondata sul principio di sussidiarietà, ci ricorda l’approccio dal basso verso l’alto che ha portato in Europa alla nascita dei grandi imperi, dell’arte, della cultura, e delle conquiste come la democrazia e la divisione dei poteri.
La storia europea è una storia di continua negoziazione tra popoli che volevano preservare la propria libertà e rendere ben chiaro al sovrano di turno che il suo potere poteva arrivare solamente laddove le facoltà degli individui e delle comunità locali non riuscivano a spingersi.
La Svizzera, in parte, cerca ancora oggi di fare proprio questo progetto politico a misura d’uomo. L’Unione Europea potrebbe trovare una risposta alle sue disarmonie non nella delegazione delle decisioni a un superstato continentale lontano dai problemi dei vari territori, ma in una struttura istituzionale complessa che organizzi la soddisfazione dei bisogni proprio in questo modo: dal basso verso l’alto.
Emanuele Martinelli